... "Oggi mi piacerebbe molto sapere se l’imminente trasloco segnerà un inizio o una fine” ...
Diario di un senza fissa dimora
Marc Augè 2011.
DIARIO/BLOG DI UN TERAPEUTA EXPAT
“UN ASCOLTO POSSIBILE” …
il lungo viaggio per condividere l’andare dell’altro…
psicoterapia per expat / terapeuta expat
Ho iniziato ad effettuare “terapie a distanza “ nel 2005.
in virtù di circostanze assolutamente eccezionali.
Si trattava di miei pazienti che, per motivi familiari, e di studio si stavano trasferendo in altri paesi, definitivamente o per lunghi periodi.
Dopo molta riflessione e molti confronti con loro, mi sono resa disponibile alla richiesta di continuare la terapia online e ci siamo riservati di valutare insieme l’efficacia di questa modalità.
Questa modalità di terapia si costituiva allora, come una assoluta novità per me : ricreare la dimensione dell’ascolto, di un ascolto “analitico”, in assenza dell’altro, in una dislocazione e in una distanza spaziale che non doveva compromettere la condizione di vicinanza e relazione, necessaria a tale ascolto rinunciando alla comunicazione potente che la presenza del corpo impone alla relazione.
Infatti, all’epoca, ero assolutamente stanziale da circa 20 anni nel mio studio romano, con un setting rigorosamente analitico e dunque senza alcuna rete teorica a sostegno di questo “nuovo setting” in spazi dislocati.
Questo inizio, questa sperimentazione, mi apparivano tuttavia come unica possibilità per continuare a garantire loro uno spazio di ascolto.
Pian piano, con una attenzione costante, nel nuovo setting, alle risonanze che l’introduzione dello “strumento digitale” andava determinando nella comunicazione, per loro e per me, l’esperienza è andata avanti.
Da quel momento, è iniziato anche, un faticoso e “impervio” percorso di ricerca di esperienze e letteratura, (nulla nel nostro paese), di tentativi di condivisione della pratica clinica con altri colleghi (clandestini nel nostro paese)
Circa 3 anni dopo, nel 2008 sono stata contattata da una persona ( inviata da una collega che era a conoscenza della esperienza che stavo conducendo) da più di 10 anni impegnata in attività professionali all’estero . Il suo lavoro richiedeva frequenti spostamenti e non avrebbe previsto un rientro in Italia.
Mi dice di essere in un momento di grave difficoltà e sofferenza personale, di aver fatto un tentativo di psicoterapia in lingua inglese con una terapeuta del posto ma di averla interrotta dopo circa un anno per una serie di difficoltà che rendevano per lei impossibile entrare in quella condizione di relazione ed alleanza terapeutica, indispensabile alla realizzazione di un lavoro psicologico.
Per quanto, infatti lei parli ovviamente perfettamente l’inglese, sentiva che nella condivisione di emozioni e nel racconto di una storia personale, si determinava una intraducibilità di questi in un’altra lingua.
Inoltre, la ovvia differenza di appartenenza culturale determinava frequentemente una incomprensione ed uno slittamento di contesti che rendeva per lei emozionalmente difficile sentirsi compresa.
Mi dice anche :“… mi sono spesso chiesta, in questi ultimi tempi come sia possibile per noi italiani che lavoriamo e viviamo in giro per il mondo, e siamo tanti, farci aiutare se stiamo male…”
Su questo commento nel commiato ho iniziato a riflettere e, a quel punto ho iniziato a pensare di costruire le condizioni per intraprendere una parte di lavoro che potesse andare ad incontrare anche…”corpi mai conosciuti”, persone che non avevano e non avrebbero mai abitato e condiviso con me lo spazio fisico della stanza d’analisi.
L’esperienza di questi nuovi percorsi, ha attivato infinite riflessioni e la consapevolezza che un ascolto empatico sarebbe stato possibile solo se io mi fossi permessa di uscire dalla stanzialità fisica, temporale ed emotiva nella quale avevo sempre alloggiato, per “dislocarmi empaticamente nei luoghi dell’altro, nei tempi dell’altro riuscendo ad immaginarne e condividerne i contesti, le esperienze, i linguaggi, le relazioni e i legami , tutto quello che costantemente dovevano intentare per costruire e definire una possibilità di nuove appartenenze, spesso, di volta in volta, provvisorie.
Seguire il filo del loro andare recuperando e ricostruendo insieme tutta la trama che connetteva quei percorsi al “luogo di partenza”.
Ho tentato da allora di cimentarmi con questo dovendo ricorrere per affrontarne la pensabilità a qualche ancoraggio che potessi ritenere saldo e non mediabile (con me stessa ovviamente).
-la assoluta necessità che una terapia si realizzi fra interlocutori che parlano la stessa lingua e che questa lingua sia la lingua madre
-il riconoscimento di una domanda e di un bisogno di sostegno e di aiuto psicologico da parte di persone che per motivi personali e professionali, hanno scelto o sono state costrette a vivere , spesso per lunghi periodi o definitivamente in luoghi diversi dal loro paese di origine
Mi appariva evidente, infatti, come una esperienza di sradicamento dai propri luoghi, affetti e relazioni, pur vissuta come prospettiva di realizzazione professionale e personale, si potesse costituire come momento delicato e sensibile di estrema (e spesso inconsapevole) destabilizzazione che poteva riguardare sia individui che interi nuclei familiari.
Lo stress della dislocazione fisica e talvolta temporale, dell’impatto con nuove culture e linguaggi , del “lavoro” per avviare nuove appartenenze, e per rispondere ad aspettative non più prevedibili, potevano tradursi in vissuti che riguardavano lo stesso assetto identitario di una persona.
Ancor più delicato e con maggior rischio se questo riguardava bambini o adolescenti.
Era dunque necessario riuscire a ricreare un luogo dell’incontro, dell’ascolto e della relazione con sé stesso e con l’altro, per rispondere alla richiesta di aiuto e superare il limite che impone la dislocazione spaziale e fisica.
Era necessario attrezzarsi all’utilizzo di nuovi strumenti che avrebbero mediato la comunicazione fra paziente e terapeuta tentando di mantenere inalterata la profondità di quella relazione.
Era necessario fornire risposta a questa domanda allestendo un “nuovo setting”, virtuale ma assolutamente rigoroso, che consentisse l’incontro e rendesse possibile “l’ascolto”.
Ma tutto questo non si improvvisa.
Si apriva la necessità impellente di affrontare ed elaborare scenari inediti e cambiamenti rispetto ai quali, anche la tradizione culturale della nostra professione (in Italia), ci aveva resi poco flessibili.
Nella terapia online infatti, cambia profondamente il setting e quindi, le linee guida e la pensabilità stessa di cosa possa determinare e garantire l’ efficacia della terapia.
L’importanza della corporeità nella relazione interpersonale, come può essere risolta nella psicoterapia online, totalmente disancorata dai tanti stimoli percettivi della corporeità?
Ed ancora il rischio che, gli individui, sempre più travolti da un imponente processo di accelerazione ed alterazione delle abituali coordinate spazio-temporali, chiedano non solo, risposte altrettanto veloci e “dislocate” al loro malessere , ma anche una formula terapeutica più anonima.
La terapia online può quindi rischiare di colludere col disagio, consentendo solo soluzioni di temporaneo “maquillage” che non riescono ad ascoltare in profondità, né a consentire all’altro di “apprendere” tale ascolto di sé.
E, inoltre, il disagio del terapeuta , (il mio disagio )che, scopre, disorientato, la emergente necessità di trasformare le forme terapeutiche tradizionali, non più compatibili ed attrezzate a far fronte a nuove domande o forse, in realtà, ad antiche e sempre uguali domande, che si muovono però oggi all’interno di contesti comunicativi fluidi, aperti, assolutamente inediti.
Il luogo protetto, consueto e rassicurante dello “spazio-setting fisico” che fino ad oggi è stato l’esclusivo luogo dell’incontro, dell’ascolto e della relazione con sé stesso e con l’altro, rischia di venire travolto-stra-volto, dalla urgenza di una richiesta che impone al contrario la dislocazione spaziale e fisica.
La necessità di attrezzarsi all’utilizzo di nuovi strumenti che medieranno la comunicazione fra paziente e terapeuta tentando di mantenere inalterata la profondità di quella relazione.
Tuttavia, questo continuava ad avvenire dalla consueta “distanza della mia stanzialità”, nel mio studio romano.
Ma, allora, tutta impegnata ad attrezzarmi/pensare/occuparmi del setting, l’evidenza della mia stanzialità e gli interrogativi che avrebbe dovuto pormi, era assolutamente fuori dal mio “campo visivo”.
Io infatti ero sempre lì, nel mio… luogo protetto, consueto e rassicurante dello “spazio-setting che continuavo, fisicamente ad abitare”.
Fra le tante “chiavi” cercate per attrezzarmi ad una diversa pensabilità, questa mi era sfuggita.
E infatti, mi cito: “…. uscire dalla stanzialità fisica, temporale ed emotiva nella quale avevo sempre alloggiato, per “dislocarmi empaticamente nei luoghi dell’altro, nei tempi dell’altro riuscendo ad immaginarne e condividerne i contesti, le esperienze, i linguaggi, le relazioni e i legami , tutto quello che costantemente dovevano intentare per costruire e definire una possibilità di nuove appartenenze, spesso, di volta in volta, provvisorie.
Potevo solo immaginare infatti, l’andare dell’altro.
Questa evidenza, questo riconoscimento, è arrivato molto dopo tuttavia.
Quando anche le mie “circostanze di vita” sono cambiate, e, per motivi personali nel 2013 mi sono trasferita in Spagna, dove ho richiesto il riconoscimento del titolo professionale ed ho effettuato l’iscrizione all’ordine spagnolo.
Ho iniziato a preparare i miei pazienti molto prima che questo cambiamento si realizzasse.
E’ stato un periodo durissimo sul piano umano, emotivo e professionale e molto ho riflettuto sulla peculiarità di questo nostro mestiere, su quanto forse poco siamo attrezzati ad affrontare scelte improvvise di cambiamento che la vita ci pone, sempre certamente destabilizzanti ma, nel nostro lavoro, molto di più.
Ci sono voluti circa due anni.
Con alcuni di loro ho previsto il tempo, già annunciato, e concordato della conclusione del loro percorso.
Con altri abbiamo lavorato alla elaborazione di questa separazione “fisica” ma con la prospettiva e la possibilità che il nostro percorso potesse continuare online.
Questi due anni, sono stati fondamentali per loro e per me.
Piano piano con ognuno di loro abbiamo dato forma e parole ad una possibilità anche se ancora non ad un progetto, ma questo non ci era dato ancora poterlo definire.
Quando è arrivato il momento dell’ultimo giorno (era dicembre del 2012 e avevo già da tempo avvertito tutti che ci saremmo salutati alla vigilia della interruzione delle feste del Natale) avevo concordato i nostri appuntamenti skipe con tutti, tranne che con tre di loro, (due mi hanno ricontattata dopo qualche mese).
A quel punto ero anche io una “espatriata”
E’ COSI’ CHE NASCE : “UN ASCOLTO POSSIBILE”